CARLO CINELLI

Dina Cangi ha avuto in sorte di potersi coltivare la sua propensione alla pittura, in lei felicemente connaturata, per buona parte solo assecondando le proprie inclinazioni. Ovvero, affidandosi a un istintivo senso della composizione, a un'accentuata sensibilità delle armonie cromatiche e ai valori timbrici, e a una calibrata versatilità nell'impiego dei materiali, dai più tradizionali e collaudati ai più eterocliti e sperimentali. Dominando però tutto quanto con una gastualità comunque controllata, che le consente di costruire quasi plasticamente, con invidiabile sicurezza e con pennellate decise, immagini fortemente evocative. E questo grazie invece a un tirocinio artistico, a un allunato rigoroso che le hanno permesso di liberarsi delle incertezze e delle goffaggini dilettantistiche, per presentarsi sulla scena con u linguaggio già maturo e compiuto. (...)
Lasciate le desinenze fortemente e intimamente intessute di un surrealismo declinato alla Max Ernst e le delicate tenuità pastello, ella ha innervato il suo modo di dipingere con terrestri pulsioni, immissioni di pittura matematica, sposate a indirizzi informali. (...)
Ma la materia di Dina Cangi, sebbene protagonista, non trascende il segno. E' invece tramite, mezzo impiegato per ancora descrivere un'emozione personale, per filtrare un'immagine colta all'esterno, e farsela propria, catturarla. In che modo? Svuotandola nella sua sostanza originaria per riempirla con un'altra di diversa natura. Le realtà fenomeniche, quotidiane, sono quindi meno pretesto, semplice spunto compositivo. E l'artista pronta interviene a permealre fortemente di sè. Così che i soggetti sono put sempre identificabili; eppure alla fine ti domandi se si tratti di immagini descritte alla stregua di nature morte, oppure a queste solamente analoghe; se non addirittura delle stesse riflessi onirici; ovvero iconografie archetipe collettive, ricercate nelle profondità abissali dell'inconscio.
Materia, quindi, come mezzo. Materia però anche esaltata nelle sue preziosità più riposte, in virtù della padronanza tecnica che l'artista è riuscita a conseguire grazie a uno sperimentalismo tenacemente e quasi programmaticamente perseguito. E finalizzato all'ottenimento del piacere, quasi tattile, che si può cogliere in una increspatura cartacea, sulle rugosità e asperità sugherose dei supporti - che rimandano con la loro trame inopinate alle suggestioni dei frottages surrealisti -, in una torbida o grassa pennellata, in un veloce guizzo aureo. E anzi è proprio nei bagliri dorati - che baluginano, pulsano al di sotto dei pigmenti - che la pittrice sembra aver colto il soffio vitale, l'anima vera dei suoi dipinti. L'anima bella. Lo spirito che informa di sè tutte le manifestazioni visibili, primigenio, dell'individuo singolo come dell'umanità tutta; e del quale ciascun quadro può definirsi una distinta incarnazione. Un'anima, bella, ripeto. Perchè, alla fine, è comunque sempre alla bellezza che tende la pittrice. Al fascino intrinseco della materia, che lei si propone di rivelare, lavorando sapientemente, a passagi, con velature successive, partendo da basi scure fino a liberare cromie sempre più sottili, preziose. E attuando in tal modo una sorta di processo catartico.